La Genetica molecolare

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1934

Ognuno di noi, almeno una volta nella nostra vita, avrà sentito pronunciare la parola DNA. Oggi spesso viene usata per esprimere certi modi di dire della quotidianità. Ma è nell’ambito scientifico, quello della Biologia cellulare, nella Genetica, nel campo medico, in quello evoluzionistico, che trova la sua vera collocazione. Nel 1869 Miescher isola per la prima volta una sostanza ricavata dal nucleo di cellule del pus: la nucleina. L’analisi chimica confermerà la sua natura di acido e una composizione fatta da uno zucchero pentoso, una base azotata e un gruppo fosfato. Oggi questa sostanza è conosciuta come DNA.

Nel 2001 è stato pubblicato un articolo sulla prestigiosa rivista scientifica Nature in cui si annunciava al mondo che era stato completato il sequenziamento del genoma umano. E qui ha riservato delle sorprese per i ricercatori perché la complessità di un organismo come il nostro, si riteneva che il patrimonio genetico di un essere umano fosse di almeno 100.000 geni, vista la presenza di oltre 90.000 proteine, una diversa dall’altra. Invece i risultati hanno confermano che dei 100.000 geni stimati ne vennero individuati all’incirca 30.000. Solo il 5% del DNA sequenziato codifica per produrre proteine, il resto sembra non servire tanto da essere battezzato junk DNA (DNA spazzatura).

Una branca della Genetica, la Genetica molecolare, ha come oggetto di studio proprio il DNA,  su tre versanti. In uno si studia la molecola da un punto di vista strutturale, nel secondo da un punto di vista biochimico e nell’altro sul contenuto delle informazioni. Per fare un paragone, possiamo pensare al patrimonio di una libreria piena di volumi. La libreria sarà il DNA, i volumi saranno i cromosomi. Ogni volume sarà costituito da capitoli (i geni), che saranno scritti con lettere dell’alfabeto (i nucleotidi).

UN PO’ DI STORIA…Frederick Griffith (1879-1941), un ufficiale medico inglese, nel 1928 stava studiando un ceppo batterico patogeno implicato nella trasmissione della polmonite nei ratti e a sua volta all’uomo: lo Streptococcus pneumoniae. Il ceppo presenta due varietà: una virulenta e l’altra innocua. La prima è costituito da un rivestimento di polisaccaridi detto capsula, mentre la seconda ne è sprovvista. Visti al microscopio, i ceppi patogeni (con capsula e virulenti), presentavano un aspetto liscio e venivano detti S (da smooth = liscio), mentre quelli non patogeni (senza capsula e innocui), presentavano un aspetto ruvido e venivano detti R (da rough = rugoso). Condusse allora i seguenti esperimenti: prese dei topolini da laboratorio e a seconda di cosa inoculasse ne osservava gli effetti. Ad un primo gruppo di topolini venne inoculato un ceppo S (patogeno) e i ratti morivano. Ad un secondo gruppo vennero iniettati ceppi R (innocui) e i ratti sopravvissero. Nel terzo gruppo inoculò ceppi S uccisi con il calore. Risultato: i topini vivevano. Quarto esperimento. Griffith iniettò ceppi R vivi e ceppi S morti. Con meraviglia i roditori morivano di polmonite, dunque si era sviluppata la malattia. Al microscopio il sangue dei topini morti risultò contaminato da ceppi vivi e molti di questi avevano acquisito caratteristiche patogene del ceppo S. Le conclusioni di Griffith furono che in presenza di ceppi S morti, alcuni ceppi R vivi si fossero trasformati in un ceppo S, quindi virulento. Il medico dimostrò che c’era “un qualcosa” in grado di convertire, di trasformare un ceppo batterico da innocuo a patogeno, cioè qualcosa che convertiva i ceppi R in ceppi S, qualcosa di “ereditario” che chiamò principio trasformante.

Ma non poteva essere qualcosa presente nel corpo dei topolini? Ciò venne dimostrato attraverso semplici esperimenti di incubazione dove batteri R vivi insieme a ceppi S morti davano lo stesso risultato. Pur essendo stato un rigoroso lavoro che rappresentò una pietra miliare nella ricerca genetica, venne comunque contestato dalla comunità scientifica dell’epoca.

Coloro che dimostrarono come il principio trasformante stabilito di Griffith fosse il DNA, furono Avery e coll. nel 1944. Ottenuta una coltura di batteri S morti, ne fecero dei filtrati da distribuire su diverse provette. Ogni provetta venne trattata con un enzima differente in maniera tale che degradasse, di volta in volta, i singoli componenti cellulari. In ogni provetta c’era una miscela, un preparato composto da: DNA+RNA+ proteine. Una provetta subì un trattamento con PROTEasi, + l’aggiunta di batteri R. Iniettando il tutto, il risultato fu che il ceppo R si trasformò in quello S, quindi da innocuo a patogeno. In un’altra provetta, solita miscela ma con enzima RNAsi (ribonucleasi) + batteri R. Risultato: anche qui il ceppo R trasformato in S. Nell’ultima provetta venne aggiunto l’enzima DNAsi (deossiribonucleasi) + batteri R. Risultato: il ceppo R rimaneva tale.

Che cosa vuol dire questo? Che i primi due enzimi non erano in grado di degradare ciò che trasformava i ceppi innocui in virulenti. Infatti degradando il DNA con DNAsi, la doppia elica perdeva la sua capacità di trasmettere la virulenza, cosa che non avveniva distruggendo le proteine o l’RNA e questo poteva avvenire solo attraverso il DNA. Questo lavoro non fu comunque accolto dalla comunità scientifica con entusiasmo e per due motivi: primo, gli scienziati erano convinti ancora che fossero le proteine e non il DNA il principio trasformante, in quanto ritenevano la doppia elica troppo semplice da un punto di vista biochimico per essere il materiale genetico. Secondo, essendo all’epoca la Genetica dei batteri un campo completamente nuovo, si era ancora incerti sul fatto che i batteri potessero o no possedere geni.

Fu però a partire dal 1952, grazie ad una serie di esperimenti condotti magistralmente dagli americani Martha Chase e Alfred Hershey sui virus che si ottenne il risultato. Questo lavoro, non solo dimostrò in maniera definitiva che fu il DNA e non le proteine il materiale genetico per eccellenza, ma ebbe una risonanza nel mondo scientifico maggiore degli esperimenti di Avery.

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Martha Chase e Alfred Hershey

Gli esperimenti condotti dagli studiosi furono quelli sui virus. Ma che cosa sono i virus? La parola deriva dal latino che significa veleno. In Genetica sono considerati un “programma genetico rivestito di proteine”. Si tratta di “entità” biologiche (non tutta la comunità scientifica è d’accordo) che possiedono materiale genetico, ma non rispondono a tutta una serie di criteri caratteristici degli esseri viventi: hanno sì un codice genetico, ma non sono in grado di riprodursi da soli se non all’interno delle cellule infettate, quindi sarebbero dei parassiti endocellulari. Si caratterizzano in una sorta di involucro esterno detto capside. Intorno a questo, vi sono i capsomeri, dei sistemi proteici che favoriscono l’ancoraggio sulla cellula da infettare. Al di sotto del capside, c’è il pericapside e al suo interno l’acido nucleico, che può essere DNA oppure RNA. I virus in questione furono i cosiddetti batteriofagi o semplicemente fagi. I fagi sono una categoria di virus che parassitano i  batteri e possono provocare la lisi, cioè la scissione. Ma nell’infettare la cellula, veniva introdotto il DNA o le proteine? I due studiosi compirono una serie di esperimenti con una categoria di fagi, dalla forma simile ad uno spillo, appartenenti alla serie T: i fagi T2.

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Si sapeva che, da un punto di vista biochimico, le proteine contengono zolfo (presente in alcuni aminoacidi) elemento che non si trova nel DNA e il capside aveva una struttura proteica. Il DNA invece, presente all’interno del virus, è ricco di fosforo, assente invece nelle proteine. Entrambe gli elementi hanno un isotopo radioattivo, lo zolfo 35S e il fosforo 32P. Per poter compiere questi esperimenti, gli studiosi si avvalsero della cosiddetta marcatura selettiva, cioè una proprietà della radioattività. svilupparono due colture di batteri: una con fagi T2 marcati con 35S e nell’altra coltura fagi T2 marcati con 32P. Lasciarono che i fagi infettassero i ceppi, dopo di che vennero centrifugati in modo che si staccassero dalla superficie tutti quei virus che non erano riusciti a infettare il batterio, poi ulteriormente centrifugati per separare i batteri. In questo modo, le particelle si separarono per gradiente di densità: le parti non penetrate nel batterio, le più leggere, rimasero in superficie, i batteri essendo più pesanti si depositarono sul fondo.

Ed è qui che Chase e Hershey trassero le loro geniali conclusioni: la maggior parte di 35S galleggiava con i virus, mentre gran parte di 32P era sul fondo, all’interno dei batteri. Questo risultato dimostrò in maniera definitiva che il materiale trasferito dal fago T2 al batterio non furono le proteine bensì DNA.

 

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